"Il berbero di Jerba: rapporto preliminare"
Incontri Linguistici 21 (1998) [ma 1999]
pp. 115-128



Il berbero di Jerba:
rapporto preliminare

(Vermondo Brugnatelli - Università di Udine)


    Nei mesi di luglio e agosto del 1998 è stata condotta una missione di studio dell’Università di Udine nell’isola di Jerba  (Tunisia) allo scopo di ricercare, raccogliere e studiare materiale linguistico di questa località. I partecipanti alla missione erano due: Guido Cifoletti, che, in quanto specialista di dialettologia araba, ha rivolto la sua attenzione soprattutto al dialetto arabo dell’isola, e l’autore del presente articolo, che si è invece occupato prevalentemente del berbero di Jerba, uno dei pochi parlari berberi superstiti in Tunisia, fin qui ancora ben poco noto e studiato.
    Proprio in considerazione delle scarsissime conoscenze che si hanno fino ad oggi di questo parlare è parso utile descrivere in un primo articolo alcune delle particolarità di rilievo che si sono in esso riscontrate.

1. Estensione della berberofonia.


    E’ assai difficile ricavare dati precisi sulla reale consistenza della berberofonia nell’isola. E’ indubbio che le cifre indicate negli anni ’40 da STABLO e riportate anche nel recentissimo articolo di BEHNSTEDT (1998) sono da considerare superate. Soprattutto il numero dei parlanti “monolingui” deve essersi drasticamente ridotto. Parecchi degli informatori che ho avvicinato hanno accennato all’esistenza di soggetti ancora in grado di parlare e di capire solo il berbero, ma si trattava perlopiù di anziane parenti refrattarie ad ogni contatto esterno, e si possono considerare vere e proprie rarità. Ormai l’istruzione in arabo (e in francese) e la televisione, presente in ogni casa, hanno reso virtualmente bi- e trilingui quasi tutti i berberofoni.
    Anche nelle località a prevalenza berberofona questa lingua viene impiegata soprattutto in casa, e raramente all’esterno. E il tradizionale riserbo della popolazione (connesso anche con gli usi particolarmente austeri della comunità religiosa ibadita cui appartengono tutti i berberofoni) è un obiettivo ostacolo a chi cerchi di studiare questa lingua là dove essa viene più praticata, vale a dire all’interno delle case. In particolare, le maggiori custodi di questo patrimonio linguistico sono le donne, che ancor oggi vivono tradizionalmente molto isolate ed escono di casa assai raramente, ma proprio per questo sono ancor più inavvicinabili allo studioso europeo.   
    Con queste premesse è evidente che ogni tentativo di quantificare l’uso e i gradi di competenza del berbero a Jerba è destinato ad una grande approssimazione. In linea di massima, si può affermare con ragionevole certezza che il berbero è ancora praticato dalla maggior parte della popolazione nelle località di Guellala e di Sedouikech, con i centri vicini di Tlet, Fahmin e Ouirsighen. Inoltre, è ancora relativamente diffuso, benché in evidente regresso, a Ajim e nelle località vicine (p.es. Khenansa).  Una presenza sporadica, difficile da quantificare ma probabilmente in vari casi ridotta a poche decine di parlanti, se non addirittura a qualche unità, vi è pure in altre località dell’isola. Tra queste citerò senz’altro, in quanto mi è stata segnalata l’esistenza in esse di berberofoni, El-Riadh, Walegh e Ghizen, ma sembra probabile che ve ne siano anche a Mahboubine, Elmay , ecc.

2. Il nome della lingua


    I termini “berbero” (fr. berbère, ar. lugha barbariya) e “amazigh”  (il femminile designa la lingua:  tamazight, ar. lugha amazighiya) sono conosciuti, ma —a detta dei miei informatori— sarebbero stati appresi a scuola, e non sarebbero quindi di uso tradizionale. I termini correntemente impiegati per riferirsi all’idioma berbero dell’isola sono di origine araba: ccelḥa (ma un informatore sosteneva che questo termine designerebbe più propriamente i berberofoni —anch’essi ibaditi— dello Mzab) e soprattutto jjerbi (o, in modo più completo, eddwi jjerbi “la lingua berbera” ).  L’unica espressione da me sentita per dire “in berbero” è il sintagma arabo b-ejjerbi, contrapposto a b-elâarbi, “in arabo”.  
    Come spesso avviene, però, l’opinione dei parlanti non è sempre necessariamente esatta. Ritengo anzi assai probabile che il termine amazigh, ancorché oggi non più usato di norma per riferirsi alla lingua o ai suoi locutori, fosse un tempo di uso tradizionale anche a Jerba, come in altre località del Sud Tunisino (Sened).  Esso si ritrova infatti nel titolo di un canto tradizionale Tmazixt, piuttosto lungo e conosciuto bene soprattutto dalle persone più anziane, che verrebbe eseguito in occasione dei decessi.  
    Se non esiste (più) un termine autoctono per riferirsi ai berberofoni, ne esiste un altro per riferirsi agli Arabi (con qualche ambiguità circa l’ambito di applicazione, etnico o linguistico), vale a dire abiyyat (f. tabiyyat).

3. La lingua jerbi: studi esistenti


    Come detto, ben pochi studi illustrano il parlare berbero di Jerba. Essi sono tutti compresi nella bibliografia in fondo e possono essere brevemente riassunti in poche righe.
    I lavori più antichi —e, tutto sommato, fino ad oggi più estesi— sono quelli pubblicati, oltre un secolo fa, da R. BASSET (1883 e 1890: rispettivamente un breve studio, prevalentemente lessicografico e 4 fiabe) e da A. de Calassanti-MOTYLINSKI (1885 e 1897: pochi testi con qualche nota lessicografica e grammaticale).
    In questo secolo si hanno solo brevi contributi estremamente limitati. A. BASSET (1950), nell’ambito di una succinta descrizione dei parlari berberi della Tunisia, riporta alcuni dati, soprattutto lessicografici, di varie località dell’isola di Jerba (qualche dato lessicale di Jerba e del sud tunisino è riportato anche in altri suoi lavori di geografia linguistica, p.es. in BASSET 1948 o nelle cartine alle pp. 49-54 di A. BASSET 1952). L’arabista L. SAADA (1965) registra un breve elenco di termini berberi, per la verità non sempre ben compresi e trascritti. J.L. COMBÈS e A. LOUIS (1967), all’interno di un vasto studio sull’arte del vasaio a Jerba, rilevano numerosi termini berberi (raccolti in un glossario, p. 305-310). W. VYCICHL ha condotto studi piuttosto lunghi e approfonditi sul parlare dell’isola, ma fin qui non ha pubblicato che brevi osservazioni, soprattutto sull’accento, sulla spirantizzazione delle occlusive, sulla reggenza preposizionale dei verbi transitivi all’imperfetto (concomitante) e su alcuni termini gergali (1973, 1975, 1980, 1984, 1989, 1989a). Un po’ più estesamente, R. COLLINS (1981-82) si è dedicato all’analisi approfondita di un singolo aspetto morfologico dei parlari del sud della Tunisia, quello dei pronomi affissi al verbo, dedicando un certo spazio ai dati di Jerba (Guellala). E per finire, BEHNSTEDT (1998), nell’ambito del primo studio sistematico sull’arabo di Jerba, dedica qualche cenno al berbero, soprattutto riguardo alla fonetica dei prestiti.
    Altri studi contengono elementi extralinguistici di maggiore o minor rilievo, ma sono privi di informazioni lessicali o grammaticali: R. STABLO (1946: analisi molti dettagliata sulle componenti etniche, religiose e linguistiche dell’isola, ma senza elementi di studio della lingua); TLATLI (1942 e 1967: non mi è stato possibile consultarli ma non sembrano contenere analisi linguistiche ); L. SAADA (1976: poche note su ricerche in corso, senza elementi di descrizione o di vocabolario); T. M. PENCHOEN (1968: analisi in chiave sociologica della consistenza delle comunità berberofone in Tunisia).
    Esistono infine altri studi su svariati aspetti tipici della cultura tradizionale di Jerba (arti popolari, usanze religiose e tradizionali, artigianato, ecc.), ma se contengono materiale linguistico, questo è solo relativo al parlare arabo dell’isola. La cosa si spiega in due modi: da una parte, si tratta per lo più di studi da parte di arabisti, i quali tendono a svolgere le loro inchieste in arabo e finiscono per rilevare solo il lessico arabo che incontrano. Dall’altra, non si può negare che pesi, soprattutto nei lavori degli autoctoni, un’inespressa censura sulla lingua berbera (si ricordi che anche per la costituzione tunisina, come per quelle algerina e marocchina, la sola lingua nazionale è l’arabo), più o meno inconsciamente percepita come una “minaccia” all’unità nazionale e opportunamente lasciata nell’oblio con l’inespressa speranza che si estingua quanto prima.  

4. La lingua jerbi: alcuni tratti caratteristici.


    Sul berbero di Jerba mi riprometto di condurre ulteriori ricerche, nella speranza di poterne dare in futuro una descrizione sistematica complessiva sia dal punto di vista grammaticale che da quello lessicale.  Perciò in questa sede mi limiterò ad esporre alcune caratteristiche di questo parlare, in precedenza non rilevate, che presentano, a mio parere, un certo interesse per gli studi di dialettologia berbera.
    Un tratto che caratterizza il jerbi —come gli altri parlari della Tunisia— è quello di essersi a lungo sviluppato nell’ “isolamento” rispetto alle altre regioni di lingua berbera, probabilmente da quando, con le invasioni hilaliane dell’XI secolo, venne meno la continuità spaziale della berberofonia, fino ad allora mantenutasi relativamente omogenea. Dal punto di vista linguistico ciò si è tradotto da una parte nello sviluppo di innovazioni molto particolari (tipico caso quello dei pronomi affissi al verbo studiati da COLLINS 1981-82), dall’altra nella conservazione di tratti arcaici, oggi scomparsi negli altri parlari. E’ questa dicotomia tra innovazioni particolari e arcaismi conservati che presenta, a mio avviso, il maggiore interesse nel parlare di Jerba.

4.1- Fonetica: scambi di fricative

    Alcune caratteristiche salienti (accento e spirantizzazione) sono già state accennate negli studi di VYCICHL e andranno approfondite con ulteriori indagini.
    Per il momento, mi sembra di un certo interesse segnalare quella che appare un’innovazione recente del jerbi: la sporadica e inattesa trasformazione in f di altri suoni spiranti (perlopiù t), per esempio nel verbo uflay ”parlare”, per il quale sarebbe etimologicamente attesa una forma utlay.   Tale forma è effettivamente presente anch’essa, ma considerata “antiquata” e —a detta di qualche informatore— tipica di alcune persone anziane. In realtà mi è capitato di osservarla anche presso locutori giovani, il che induce a pensare che la distribuzione delle forme non sia solo per classi di età. Un fenomeno fonetico analogo si ritrova nell’isola anche al di fuori dell’ambito berbero: cf. le due forme arabe tammi:ka e fammi:ka “là” segnalate da BEHNSTEDT (1998: 75).
    Questa sostituzione con f di altre spiranti si ritrova anche in un allomorfo del pronome prefisso di seconda persona plurale (oggetto diretto): accanto a wen- e ken- (già segnalati da COLLINS), esiste pure una forma fen- (p. es. tghardemt ta fen-taqcew “uno scorpione vi pungerà”, accanto a ta wen-taqcew / ta ken-taqcew ).

4.2- Pronomi possessivi.

    Più rilevante è un arcaismo che si ritrova nei pronomi affissi al nome con valore di possessivo. Contrariamente a tutti gli altri parlari berberi, che conoscono due forme, una più “arcaica”, costituita dal solo pronome (spesso riservata a termini di parentela o parti del corpo, affezioni dell’animo, ecc. ), ed una più recente, che prevede un elemento -n(n)- prima del pronome, il jerbi di Guellala conosce per tutti i nomi solo quella arcaica.   Un paradigma completo da éfus “mano”:  

fus-íw
    “la mia mano”
fus-ík     “la tua (m.) mano”
fus-ím    “la tua (f.) mano”
fus-ís    “la sua mano”

ifassn-ennegh
     “le nostre mani”
ifassn-wem    “le vostre (m.) mani”
ifassn-ekt     “le vostre (f.) mani”
ifassn-esen    “le loro (m.) mani”
ifassn-esnet     “le loro (f.) mani”

Quando il nome termina per vocale, gli affissi in i del singolare perdono tale vocale:

tazeqqa
“casa/stanza”

tazeqqa-w  
 “la mia stanza”
tazeqqa-k     “la tua (m.) stanza”
...
tazeqqa-sen
    “la loro (m.) stanza”
tazeqqa-snet    “la loro (f) stanza”

    Un’altra caratteristica curiosa è l’assenza di forme particolari del possessivo con i nomi di parentela. Mentre infatti la generalità dei parlari inserisce un elemento t tra nome di parentela ed affisso nelle persone del plurale, di tale elemento non vi è traccia in jerbi. Perciò abbiamo da baba “mio padre”: bab-ik “tuo (m.) p.”, bab-im “tuo (f.) p.”, bab-is “suo p.”, bab-ennégh “nostro p.”, bab-wem  (anche -wen) “vostro (m.) p.”, bab-ekmét “vostro (f.) p.”, bab-essen “loro (m.) p.”, bab-esnet “loro (f.) p.”. E così pure yemma “mia madre”, yeǧǧ-ik “tua (m.) m.”, yeǧǧ-im “tua (f.) m.”, yeǧǧ-is “sua m.”, yeǧǧ-ennégh “nostra m.,” yeǧǧ-ewem “vostra (m.) m.”, yeǧǧ-ekmet “vostra (f.) m.”,  yeǧǧ-esen “loro (m.) m.”, yeǧǧ-esnet “loro (f.) m.”.

4.3 Verbo: perdita del participio

    Come già rilevato da diversi studi, una caratteristica comune dei parlari berberi della Tunisia è quella di avere in gran parte perduto l’antico “participio”, forma verbale che caratterizza, nel resto del mondo berbero, le proposizioni relative e interrogativo-relative. Tuttavia, negli altri parlari permangono tracce abbastanza evidenti di questa forma verbale, di solito nelle sole interrogative (p.es. Tamezrett d matt i-k-úghin ldáh? “che cosa ti ha portato qui?”). In jerbi invece esso è scomparso anche nelle interrogative e sembra sopravvivere solo nell’espressione mag illan? “che succede?” (lett. “che cosa (è) essente?”), ed anche mag-illan...  nel senso di “tutti i ...” (analogamente all’espressione cabila  akken ma llan “tutti i ...” (=“tutti quanti siano i...”).

4.4 Morfologia nominale

    Nell’ambito del nome, l’innovazione più notevole è la tendenza alla perdita dell’opposizione di stato. Le forme di stato d’annessione del nome sono ancora conosciute e impiegate, ma solo sporadicamente. Capita spesso di non vederle impiegate là dove le si aspetterebbe, tuttavia la cosa non viene rilevata come “errore” dai parlanti ma solo come un’alternativa possibile.
    Dal punto di vista morfologico si hanno però anche due esempi di arcaismi.
    Il termine wárjuj “cicala”, cui corrisponde molto precisamente arjuj del Rif, è uno di quei nomi che conservano w- iniziale e tradiscono con ciò l’antica origine da *wa- dell’antico “articolo” poi fissatosi all’iniziale dei nomi maschili con forma a- allo stato libero e we- allo stato d’annessione. Il fenomeno è assai diffuso in Chleuh, ma —più o meno sporadicamente— anche in molti altri parlari, compreso il tuareg.
    Inoltre, faqqesfednin “scolopendra” è un antico composto che presenta, in fednin, una  arcaica forma del nome tifednin “dita dei piedi” ancora priva della sillaba iniziale / “articolo”.

4.5 Paradigmi “regolari” e “irregolari”

    Sempre nell’ambito della dicotomia innovazioni/arcaismi si possono osservare da una parte la “regolarizzazione” di alcuni paradigmi e dall’altra una spinta alla creazione di paradigmi suppletivi.
    Nell’ambito della regolarizzazione di paradigmi si rileva:
il plurale di tili “pecora” è “rideterminato” con la t- del femminile: tulli  rispetto a ulli della maggior parte dei parlari;  
tameṭṭut “donna”, pur conservando il plurale suppletivo tísednan, conosce anche un plurale “regolarizzato” timeṭṭutin.
    Inoltre per la terza persona plurale del perfetto di emmet “morire” A. BASSET 1950 segnalava una forma “anomala” emmun, forma che esiste tuttora, a detta degli informatori quando si è posta espressamente la domanda sulla sua esistenza o meno. Tuttavia, come realizzazione spontanea non mi è capitato di rilevare altro che emmuten.
    Più rilevante, e per certi aspetti tipica di questo parlare, la tendenza alla creazione di nuovi paradigmi suppletivi, tanto in ambito nominale che verbale:

VERBI
“parlare” - imperativo e tema di aoristo e di perfetto: uflay ; imperfetto duggigh / idugga, infinito eddwi.
“dire” - imperativo emel, impf. emmalegh, fut. ta mlegh, inf. tamuli, ma al perfetto ewígh/yewá  .   
“essere” - presente lligh/yella, “futuro” a dlegh, “passato” isigh  (su questo verbo v. più avanti)
    Alcuni verbi impiegano una radice differente solo per l’infinito:
“cantare”: ini in tutto il paradigma, ma inf. izli;
“camminare” éyur, ecc., ma inf. tikli.

NOMI
“madre” è yemma per la prima persona (“mia madre”), ma è yeǧǧ-ikyeǧǧ-im, ecc. per le altre persone (“tua [m.] madre”, “tua [f.] madre”, etc.).
Per altri nomi, il suppletivismo si ha tra singolare e plurale.
Già noto in molti parlari è il caso delle parole per “figlio” dalle radici M (sg.)/ RW (pl.), e anche a Jerba si ha memmi “mio figlio”, pl. tarwa. Un paradigma analogo sembra in via di costituzione con l’unione di un singolare afrux (f. tafruxt) “bambino, figlio”, col plurale imeckanen (f. timeckanin), anche se in astratto esistono anche un plurale ifruxen (f. tifruxin) e un singolare ameckan.
Inoltre: elmul n-... “il proprietario di...” ha come plurale id bab en-... “i proprietari di...” ; tita “colpo” è usato solo al singolare, e al plurale si preferisce eṭṭriḥat  “colpi” .

Fenomeno abbastanza curioso è la creazione di una sorta di suppletivismo morfologico negli antonimi “buono” asbiḥ (aggettivo; f. tasbiḥt) e “cattivo” u yaḥlí (f. u ttaḥlí, plurale u ḥlín, f. u ḥlínet, lett. “non è buono”, ecc., costituito da un verbo privo di forma positiva).

4.6 Il verbo «essere»

    Di solito, la frase nominale copulativa è caratterizzata dalla sola particella invariabile d, preceduta, nelle frasi negative, dalla negazione muc.
Per esempio: baba d amezz'yan; muc d awessar  “mio padre è giovane; non è vecchio”.
    Invece, il predicato di esistenza (“esserci”) viene di norma reso tramite un verbo, dal paradigma suppletivo, che riunisce tre radici diverse, a seconda del tempo.
    — Per il presente, o in generale per gli usi dell’ “imperfetto” (fr. inaccompli) («ci sono sempre», ecc.) si hanno le forme (etimologicamente di perfetto) lligh / yella, (neg. w-illi), ecc.;
    — per l’imperativo e per l’aoristo/futuro si usa una radice eddel (“sii presente!”), a dlegh, a ydel,   etc. Per esempio: madabih aydel dahnit “egli spera di poter essere qui”
    — per il “perfetto” (“accompli”) —o semplicemente per il “passato”: isigh, yisi, ecc.
    Quest’ultima radice appare impiegata anche all’aoristo/futuro nei testi di Motylinski (1897: 387, 393): aisi [probabilmente: a yisi] d as'biḥ “il sera beau”. Nella prosecuzione delle indagini, sarà interessante ricercare se questa divergenza vada spiegata con un’evoluzione diacronica nel secolo trascorso, oppure se sia da ascrivere a differenze tra parlari di villaggi diversi (la mia indagine si è imperniata soprattutto su Guellala, mentre è probabile che i testi di Motylinski si riferiscano ad Ajim).  Tracce di questo verbo al di fuori di Jerba si ritrovano, ch’io sappia, solo in Libia, nel Gebel Nefusa (probab. parlare di Yefren, non quello di Fassato indagato da Beguinot). Qui esso viene utilizzato solo al tempo passato, e Motylinski (1898: 27) riporta la forma del perfetto e dell’imperfetto: risp. issi (=yisi?) e itissi.  Sull’etimologia si possono solo fare delle ipotesi. Da una parte, restando nel campo berbero, si potrebbe pensare a collegamenti con un verbo tuareg  icu “être, s’identifier avec, etc.” (diz. Alojali), eh “être (dans un lieu)” (Ahaggar: diz. Foucauld II 495). Questo però presenterebbe delle corrispondenze fonetiche anomale, in quanto le forme tuareg rimandano ad una *z sonora e non ad una sorda *s.   Personalmente, tendo a considerare verosimile l’ipotesi di un antichissimo prestito dal latino esse, il che costituirebbe, per quanto ne so, il primo caso riconosciuto di prestito di un verbo dal latino.
    Nel materiale raccolto non è stata invece fin qui individuata alcuna traccia dell’altra radice impiegata nei parlari berberi per “essere”, vale a dire MS (tuareg umas, Sened ems: PROVOTELLE 1911: 69-70). MOTYLINSKI (1897: 393) ha per la verità rilevato (probabilmente nel parlare di Ajim) un verbo emmud “se comporter, être” che egli stesso accostava alla radice tuareg MS (la corrispondenza fonetica anomala non è insormontabile, viste le suaccennate oscillazioni nelle fricative) , e non è escluso che, approfondendo le ricerche, se ne trovi qualche traccia anche nel parlare odierno di Guellala.

    Per il predicato di esistenza si trova impiegata anche una costruzione non-verbale, vale a dire l’espressione diy-es (nel parlato veloce si percepisce spesso dis), letteralmente «in-esso (vi è, vi era…)», forma negativa: we-ddic-c. Questa costruzione è usata soprattutto per il passato, mentre per il presente si preferisce yella, neg. w-illi(-c).

    Benché riservate preferibilmente all’espressione dell’esistenza, le forme verbali sopra ricordate possono essere anch’esse impiegate con valore copulativo (in questo caso, però, sempre accompagnate dalla particella d): isigh d awerqiq “(un tempo) ero magro”; eddel d elfalaḥ! “sii diligente!” (quest’ultima forma è considerata possibile ma inconsueta: si preferisce il ricorso ad altre costruzioni).
    Da indagare nel corso di future ricerche anche la possibilità, per questi verbi, di formare “tempi composti” perifrastici in unione con altri verbi. Per esempio, all’interno di una narrazione riferita al passato, ho trovato la frase hakaâlac a yddel w-iteggic-c “per questo riteneva di non dover più temere” (lett.: “per questo + sarà + non temerà”); viceversa, per indicare anteriorità nel passato ho rilevato teffgh-ed tghardemt tella tehrez g uEangud n tz'urin “ne uscì fuori uno scorpione che si era nascosto (lett.: era + si nascose) in un grappolo d’uva”.

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VYCICHL, W. 1980 = “Der finnische Partitiv zum Ausdruck durativer (“kursiver”) Geschehnisse. Berberische und koptische analogien”, in W. Vicichl, Fribourg-Orient. Mitteilungsblatt. Ägyptologie und hamitosemitische Sprachwissenschaft. Allgemeine Sprachwissenschaft, Sommersemester 1980, Genf (Genève), pp. 9-11
VYCICHL, W. 1984 = “Accent”, in Encyclopédie Berbère, Aix-en-Provence, fasc. I, pp. 103-105.
VYCICHL, W. 1989 = “Argot”, in Encyclopédie Berbère, Aix-en-Provence, fasc. VI, pp. 882-884 (“L’argot de Djerba”: p. 883).
VYCICHL, W. 1989a = “Etudes de phonétique et d’étymologie berbères”, in Journée d’études de linguistique berbère - Samedi 11 mars 1989 à la Sorbonne, Paris, INALCO, pp. 1-18 (Nouveaux aspects du spirantisme berbère - Djerba: p. 2; L’accentuation des adjectifs du berbère de Djerba: p. 10-11).